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prese possesso dell'isola.
Capitolo 4
FACCE DIPINTE E CAPELLI LUNGHI
La prima cosa a cui si abituarono fu il ritmo del lento passaggio dall'alba al ra-
pido crepuscolo. Accettavano i piaceri del mattino, il bel sole, il palpito del mare, l'a-
ria dolce, come il tempo adatto per giocare, un tempo in cui la vita era così piena che
si poteva fare a meno della speranza. Verso mezzogiorno, quando i fiotti di luce
scendevano quasi verticali, i colori vivaci del mattino si smorzavano, divenivano per-
lacei e opalescenti; e il calore, come se la maggior altezza del sole gli desse una forza
maggiore, diventava violento e minaccioso come un colpo che bisognava evitare cor-
rendo a buttarsi giù all'ombra, magari a dormire.
A mezzogiorno succedevano delle cose strane. Il mare lucente si alzava; si
scomponeva in piani diversi, in maniera evidentemente impossibile; la scogliera di
corallo e le poche palme nane che vi si aggrappavano nei punti più elevati, prendeva-
no a galleggiare nel cielo, tremolanti, si separavano, correvano in giù come gocce di
pioggia su un filo, si riverberavano in una strana successione di specchi. Talvolta
emergeva una terra là dove terra non c'era, poi svaniva come una bolla di sapone sot-
to gli occhi dei bambini. Piggy, con aria saputa, spiegava tutto ciò come "miraggi"; e
siccome nessun ragazzo poteva raggiungere nemmeno la scogliera al di là dello spec-
chio d'acqua dove stavano in agguato i pescicani, si abituarono a quei misteri e non
se ne accorgevano più, come non si accorgevano del meraviglioso palpitar delle stel-
le. A mezzogiorno le illusioni si accampavano nel cielo, dove il sole li guardava co-
me un occhio rabbioso. Poi, alla fine del pomeriggio, i miraggi cessavano, e man
mano che il sole declinava l'orizzonte si faceva liscio, blu e netto.
Quello era un altro momento di freschezza relativa, ma minacciata dalle tenebre
incombenti. Quando il sole tramontava, il buio scendeva sull'isola come uno spegni-
toio, e subito i rifugi erano pieni d'inquietudine, sotto le stelle lontane.
Tuttavia, la tradizione nordeuropea del lavoro, del gioco e dei pasti distribuiti
lungo tutto il giorno, non permetteva ch'essi si adattassero perfettamente a quel nuo-
vo ritmo. Fin dai primi giorni uno dei piccoli, Percival, s'era trascinato in un rifugio e
c'era rimasto due giorni a parlare, cantare e piangere, finché tutti pensarono che fosse
un po' tocco e ne furono anche divertiti. Da allora gli era rimasta un'aria infelice: era
sciupato e cogli occhi rossi, un piccolo che giocava poco e piangeva spesso.
I ragazzi più giovani erano ora chiamati col nome generico di "piccoli". Da
Ralph in giù la statura diminuiva gradualmente; e benché ci fosse una zona incerta
dove si trovavano Simone, Roberto e Maurizio, tuttavia nessuno aveva difficoltà a ri-
conoscere i grandi da una parte e i piccoli dall'altra. I piccoli veri e propri, quelli che
avevano su per giù sei anni, vivevano una loro vita del tutto separata e allo stesso
tempo intensa. Mangiavano tutto il giorno, prendendo i frutti dove potevano, senza
badare né alla qualità né se fossero maturi. Ormai si erano abituati al mal di pancia e
a una specie di diarrea cronica. Di notte avevano dei terrori indicibili e si stringevano
insieme per farsi coraggio. Oltre a mangiare e a dormire, trovavano il tempo di gioca-
re: facevano sciocchi giochi senza senso sulla sabbia bianca in riva all'acqua limpida.
Ci si sarebbe aspettato che chiamassero la mamma, tra le lacrime, molto più spesso;
erano abbronzatissimi, e incredibilmente sudici. Obbedivano al richiamo della con-
chiglia, un po' perché era Ralph che la suonava, ed egli, il più grande, rappresentava
un legame col mondo autorevole degli adulti; un po' perché lo spettacolo dell'assem-
blea li divertiva. Ma a parte ciò si occupavano ben raramente dei più grandi, e aveva-
no la loro vita tutta per loro, cameratesca e intensamente emotiva.
Avevano costruito dei castelli di sabbia alla foce del fiumiciattolo.
Erano alti circa trenta centimetri e adorni di conchiglie, di fiori secchi, di belle
pietre. Intorno ai castelli c'era un intrico di segni, di piste, di mura, di linee ferrovia-
rie, che prendevano un significato soltanto se si guardavano coll'occhio all'altezza
della sabbia. Era lì che giocavano i piccoli, se non felici almeno tutti assorti; e spesso
perfino tre insieme giocavano allo stesso gioco.
Ce n'erano lì tre che giocavano, ora: Enrico era il più grande. Egli era un lontano
parente di quel ragazzo la cui faccia macchiata di more non s'era più vista dalla sera
dell'incendio; ma non era abbastanza grande per rendersene conto, e se gli avessero
detto che l'altro era tornato a casa in aeroplano, avrebbe accettato quella notizia senza
protestare e senza sospetti.
Oggi Enrico era un po' un capo, perché gli altri due erano Percival e Nino, i più
piccoli dell'isola. Percival aveva il colore d'un topo e nemmeno sua madre l'aveva
mai trovato bello; Nino era ben piantato, coi capelli biondi e una combattività innata.
In quel momento stava buono perché s'interessava al gioco; e i tre bambini, inginoc-
chiati sulla sabbia, stavano in pace.
Ruggero e Maurizio sbucarono dalla foresta. Avevano finito il loro turno al fuo-
co ed erano scesi giù a nuotare. Ruggero si diresse dritto in mezzo ai castelli, pren-
dendoli a calci, calpestando i fiori, sparpagliando le pietre scelte con cura. Maurizio,
che lo seguiva ridendo, completò l'opera di distruzione. I tre piccoli sospesero il gio-
co e alzarono gli occhi. Per caso, la parte alla quale s'interessavano in particolare non
era stata toccata, così non protestarono. Solo Percival, con un occhio pieno di sabbia,
cominciò a frignare, e Maurizio se la squagliò in fretta. Nella sua vita precedente,
Maurizio era stato castigato per aver gettato della sabbia negli occhi dei più piccoli, e
ora, benché non ci fosse la mano pesante di nessun genitore, Maurizio sentiva ancora
il fastidio della coscienza sporca. In fondo in fondo sentiva un vago impulso di chie-
dere scusa. Mormorò confusamente che andava a nuotare, e corse via.
Ruggero si fermò a guardare i piccoli. Non era molto più scuro di quando era ar-
rivato, ma i folti capelli neri che gli coprivano la nuca e gli scendevano giù bassi sul-
la fronte sembravano molto adatti alla sua faccia triste, e davano un aspetto minac-
cioso a una figura che a prima vista sembrava soltanto poco socievole. Percival finì
di frignare e riprese il gioco: le lacrime gli avevano pulito l'occhio.
Nino l'osservò con i suoi occhi azzurro chiaro, poi cominciò a tempestarlo di
sabbia, e subito Percival pianse di nuovo.
Quando Enrico fu stufo del gioco e se ne andò via lungo la spiaggia, Ruggero lo
seguì, tenendosi sotto le palme e prendendo la stessa direzione come per caso. Enrico
camminava lontano dalle palme e dall'ombra perché era troppo giovane per pensare a
ripararsi dal sole.
Scese il pendìo della spiaggia e trovò da far qualcosa sul limite dell'acqua. La
grande marea del Pacifico stava salendo, e di minuto in minuto l'acqua relativamente
calma della laguna avanzava di un dito.
C'erano degli animaletti che vivevano in quell'estremo lembo del mare, minu-
scoli esseri trasparenti che venivano avanti coll'acqua a esplorare la sabbia calda e
secca, a esaminare quel campo nuovo con impercettibili organi sensori. Forse del ci-
bo era apparso là dove all'ultima incursione non ce n'era stato: escrementi d'uccelli,
insetti forse, uno qualsiasi degli sparsi detriti della vita terrestre. Come una miriade
di denti minuscoli di sega, gli esserini trasparenti venivano a spazzar via i rifiuti della
spiaggia.
Questo, per Enrico, era affascinante. Egli tastava qua e là con un pezzetto di le-
gno che era esso stesso un rifiuto, logorato e imbiancato dalle onde, e cercava di re-
golare i movimenti degli spazzini. Faceva dei canaletti che la marea riempiva, e cer-
cava di farvi entrare gli animaletti. Tutto assorto, era più che felice: sentiva di eserci-
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